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Eretz Israel


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C'è questa dimensione della Terra che ho imparato in Israele, fino a quel momento avevo pensato di potere essere in qualunque luogo, che la mia tradizione, la mia storia, il mio pensiero prescindessero dal dove e si determinassero attraverso me soltanto, ovunque.

Poi ho conosciuto quella Terra, ho conosciuto la sua sostanza, la sua durezza, la sua forza, la sua consistenza. Ho avvertito con il corpo che quella presenza e questa mia erano l'una per l'altra, inscindibilmente. Ho conosciuto l'appoggio esatto dei miei piedi, il rumore dei passi altrui, la luce che definisce e determina lo spazio, lo allarga e lo restituisce senza mai lasciarmi senza.

Ho toccato quella Terra ed ho pensato fosse possibile inginocchiarmi e posare le mie labbra su di lei, come sulla guancia di mia madre e di mia nonna e delle donne prima di noi.

Il desiderio d'essere corpo e possibile, in maniera nuova attraverso questa esperienza, ha cercato le parole per dirsi ma non le ha trovate, ha dovuto inventare qualcosa di nuovo o meglio ha dovuto cercarle dentro un'altra lingua che non è per me la lingua madre, che ancora non conosco con chiarezza ma che riconosco con ogni cellula del mio corpo, perché la gola si arrotola come assetata per dire le parole e in pochi istanti compone poesie in grado di restituirmi il contatto con Hashem che ci abita.

Nell'ebraismo non ha senso distinguere civile e religioso, non ha senso perché questa necessità non è ebraica, è greca e poi cristiana, è legata ad un sistema di pensiero che tiene diviso spirito, corpo e mente che teme di riconoscere il trascendente nell'immanente e che per questo ha bisogno di separare. Per questo motivo, secondo me, la nazione ebraica è sia diaspora che Terra, ma particolarmente Terra. Nel momento in cui possiamo recuperare il contatto con la terra feconda e viva, riusciamo ad esprimere il nostro essere per lei e lei per noi. Si tratta di una relazione profonda di cura, di rispetto, di attesa e di riconoscimento. Una relazione che deriva dal cammino, dal mettersi in cammino, ma che si sostanzia nel momento in cui abitiamo consapevoli della nostra finitezza, che soltanto nel riconoscimento della reciproca finitezza (quella dei cicli e delle trasformazioni della terra, come dei nostri cicli e delle nostre trasformazioni), possiamo imparare il tempo del riposo, l'assenza d'intervento che non ci sposta, ci costringe all'attesa.

L'anno Shabbatico non potrebbe essere fuori da una terra che non sia nostra piena responsabilità, non potrebbe darsi se noi ci spostassimo per non attendere l'assenza di lavoro, se noi non sapessimo fare tesori della fiducia in Hashem che ci granisce risorse sufficienti dall'anno prima per l'anno dopo.

Lo sradicamento porta ad assolutizzare il pensiero, la diaspora spesso si è trasformata nell'attesa di poter compiere tutte le mitzvot e nell'assenza della possibilità di compiere queste azioni, ci ha domandato di raccogliere pensiero ed imparare la disciplina per poterle poi compiere.

Forse, non ne sono certa perché le mie conoscenze non sono così approfondite, soltanto la casa, affidata interamente a noi donne, è “completa” in diaspora ed in Israele, questo ci da una libertà più grande di quella degli uomini, perché noi possiamo compiere le nostre mitzvot ovunque siamo ma restiamo capaci di tanto perché il nostro corpo resta sempre in contatto con la terra, con le stagioni ed i mesi, con le festività, con la memoria, con la vita.

Il punto è, tutto questo sarebbe conoscibile se non imparassimo la relazione con la Terra d'Israele? Potrebbe essere a prescindere da lei? Per me ora no...

Ariel Shimona Edith Besozzi

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